Il viaggio di Francesco in Iraq visto da Jawad al-Khoei, segretario generale dell’Istituto al-Khoei, che a Najaf promuove la conoscenza teologica sciita e il dialogo interreligioso, e che si è speso perché il pontefice visitasse anche la città santa irachena

Ultimo aggiornamento: 22/04/2022 10:03:38

Nipote di Abu al-Qasim al-Khoei, una delle più influenti autorità sciite dell’età contemporanea, Jawad al-Khoei è segretario generale dell’omonimo Istituto, il cui obiettivo è tenere viva la tradizione d’insegnamento della città irachena di Najaf e promuovere il dialogo interreligioso. Gli abbiamo chiesto che cosa si aspetta dalla visita del Papa e quali sono i problemi più urgenti dell’Iraq.

 

Intervista a cura di Claudio Fontana.

 

In origine, il programma della visita di Papa Francesco in Iraq non includeva la città di Najaf. Il suo istituto è stato tra i primi a dispiacersi pubblicamente per quest’assenza, affermando la necessità di un incontro tra Papa Francesco e il Grande Ayatollah Ali al-Sistani. Perché ritiene questo incontro così importante? Quali sono le sue aspettative sulla visita di Papa Francesco in Iraq?

 

Najaf ha dei buoni rapporti di lavoro con il Vaticano. In passato, vi sono state molteplici visite da parte di studiosi della Hawza di Najaf in Vaticano e di sacerdoti cattolici a Najaf.

Inoltre, nel 2015 si è tenuto a Roma un incontro intra-religioso tra sciiti e sunniti in collaborazione con la Comunità di Sant’Egidio. Nel 2016 abbiamo partecipato a una conferenza sulle relazioni tra sciiti e cattolici presso l’Istituto Cattolico di Parigi e due anni dopo una delegazione di questo stesso istituto è venuta a trovarci a Najaf.

Questa volta però si tratterebbe del primo incontro nella storia tra il capo della Chiesa Cattolica e il capo dell’establishment religioso di Najaf.

La visita del Papa in Iraq è un evento storico, altamente significativo e simbolico, perché visiterà diverse città irachene, da nord a sud. Sarà un messaggio di fraternità umana e un appello alla pace e al rifiuto della violenza in nome della religione. Non crediamo che il Papa non sia semplicemente il leader dei cattolici, ma lo consideriamo un’icona di pace. Per questo, molti iracheni, di ogni strato sociale e provenienza, accolgono con gioia questa visita e sono lieti che il Papa abbia scelto proprio l’Iraq per il suo primo viaggio all'estero dopo la pandemia causata dal Covid-19.

 

L'Istituto al-Khoei è particolarmente impegnato nel dialogo interreligioso. Quale ruolo pensa possa svolgere il dialogo interreligioso nel futuro dell’Iraq e in generale del Medio Oriente?

 

Il dialogo interreligioso è l’unica opzione praticabile nella regione. Questo dialogo tra fedi diverse è vitale per tutte le società pacifiche. Ci permette di capirci, a prescindere dalle nostre differenze, e di renderci conto che siamo tutti sulla stessa barca, tutti insieme di fronte alle stesse sfide.

Inoltre, la sicurezza dei musulmani dipende dalla sicurezza dei cristiani e la sicurezza dei cristiani dipende dalla sicurezza dei musulmani. Non ci può essere sicurezza per i musulmani se non c'è sicurezza per i non musulmani e viceversa.

In questo senso, il Medio Oriente non è un’eccezione in termini di violenza dei conflitti religiosi: molte altre regioni del mondo, compresa la stessa Europa, hanno attraversato secoli di scontri, guerre civili e conflitti religiosi. Alla fine, però, hanno superato questi problemi, creando società pacifiche. Crediamo che il futuro del Medio Oriente sarà simile.

 

Negli ultimi anni la società irachena si è progressivamente militarizzata. Anche le comunità religiose, a volte, sono diventate in qualche modo dei gruppi militarizzati. Ritiene possibile invertire questa situazione? In che modo?

 

Purtroppo, la nostra società si è militarizzata a causa del numero di guerre che l’Iraq ha vissuto nella sua storia recente, soprattutto dopo l’occupazione da parte dell’ISIS di ampie parti del Paese e la necessaria risposta militare per liberare la nostra terra da questo gruppo terroristico. È possibile invertire questa situazione, ma ciò richiederà tempo e volontà politica da parte dei leader locali e della comunità internazionale affinché si smettano di combattere guerre per procura e si cessi di usare la religione per giustificare la violenza politica.

Nel 2014, dopo che l’ISIS ebbe occupato Mosul e altre città irachene, fu la fatwa dell’Ayatollah al-Sistani a rovesciare la situazione: egli invitava tutti gli iracheni a difendere l’Iraq e se non fosse stato per questo suo intervento e per i 30.000 martiri che hanno dato la vita per sconfiggere il terrorismo, la visita del Papa a Mosul e Baghdad non sarebbe stata possibile.

 

La situazione in Iraq è oggi caratterizzata da delle proteste antigovernative, in parte limitate dal Covid-19. Quali sono secondo lei i problemi più urgenti del Paese?

 

L’Iraq affronta oggi una miriade di problemi che si sono accumulati nel corso di decenni, i quali hanno contribuito al deterioramento dei servizi pubblici di cui ora siamo testimoni. Non c’è dubbio che la corruzione rimanga la sfida più grande dalla comparsa dell’ISIS e in qualche modo si tratta di due facce della stessa medaglia: la corruzione permette il terrorismo e il terrorismo offre una scusa ai corrotti per continuare ed espandere la loro rete di malaffari.

L’attuale situazione economica è anche conseguenza di una mentalità che da decenni fa affidamento, grazie al petrolio, sul modello dello Stato rentier e sull'espansione del settore pubblico. Il recente calo dei prezzi del petrolio ha però reso una riforma più urgente. Speriamo che ciò costringa anche la classe politica irachena a pensare seriamente a un programma economico più sostenibile che non si basi solo sui proventi del petrolio al fine di mantenere lo status quo.

 

Soprattutto dopo il 2003, l’influenza straniera in Iraq è molto forte. È realistico immaginare un futuro in cui l’Iraq, unito nonostante tutte le sue differenze interne, sarà di nuovo un Paese autonomo?

 

Quando l’ISIS occupò per la prima volta Mosul, molti dissero che si trattava della fine dell’Iraq. Al contrario, il sorgere di questo gruppo terroristico ha in realtà unito il Paese perché tutti si sono resi conto di avere un nemico in comune. Il senso di patriottismo che vediamo ora in Iraq è molto più forte. Peraltro questa odiosa ideologia non è una minaccia soltanto per l’Iraq e gli iracheni, ma per tutta l’umanità.

Se si presta attenzione al discorso politico, il settarismo, che una volta era strumentalizzato dai politici durante le elezioni per ottenere voti, è ora rifiutato dal popolo iracheno e gli stessi politici che in passato usavano un linguaggio settario ora sostengono una retorica molto più nazionalista. Ciò non significa che abbiano realmente cambiato idea. Piuttosto, hanno capito che gli iracheni si sono spostati oltre il settarismo.

Infine, abbiamo assistito all’emergere in Iraq di una società civile e di movimenti politici meno settari e più interconfessionali, attivi nel cercare di cambiare la situazione sul campo.

 

Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
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