Ha vissuto nei quartieri poveri del Cairo e conosciuto le carceri egiziane. Anche per questo ha saputo cantare i problemi della gente e i mali della società: un’eredità che ha ricevuto un nuovo slancio dagli avvenimenti del 2011

Ultimo aggiornamento: 18/03/2024 12:43:44

Quando la rubrica T-arab ha preso forma, oramai un anno fa, una sola puntata si è prepotentemente imposta come imprescindibile. Quella su una figura essenziale della canzone politica araba: Sheikh Imam, l’ultimo “classico” di T-arab.

 

Non è facile districarsi nelle numerose biografie di questo autore così emblematico, punteggiate di narrazioni semileggendarie, tra il sacro e il profano, tra religione e politica, tra riscatto sociale e oblio collettivo, tra periferia rurale e profondissimo Cairo.

 

Imām Muhammad Ahmad ‘Īsā nasce il 2 luglio 1918 nel quartiere di Abū l-Numrus, nella periferia rurale cairota, equidistante – 10 km – dalle Piramidi di Giza e da quelle di Saqqara, letteralmente a due passi dal Nilo. La sua è una famiglia povera e molto religiosa, e lui è il primo figlio a sopravvivere dopo la morte di sette fratelli. Ancor prima di compiere un anno diventa cieco a causa di una congiuntivite (degenerata poi in oftalmite) mal curata.

 

Da secoli, in Egitto (e non solo), molti figli ciechi di famiglie indigenti sono indirizzati verso studi religiosi: la mente corre subito all’intellettuale egiziano Taha Husayn (1889-1973) ma, visto il tema musicale della rubrica, si potrebbe citare anche Sayyid Mikāwī (1928-1997), un altro famoso musicista cieco – egli stesso amico dell’artista di oggi.

 

Anche il padre di Imām ‘Īsā spinge il figlio cieco verso una carriera da “shaykh di villaggio”, nella speranza che possa condurre una vita dignitosa. Per questo motivo, e come abbiamo visto con altri artisti e cantanti di T-arab dalla formazione “classica”, a partire dall’età di cinque anni Imām ‘Īsā studia il Corano e, dimostrando notevoli doti mnemoniche, lo memorizza nella sua interezza (diviene dunque un “portatore” del Corano, hāmil al-Qur’ān) all’età di dodici anni e impara a recitarlo in pubblico, gettando così le basi per un suo futuro da qārī’ (lett. “lettore” coranico) e predicatore.

 

Proprio per perfezionare i suoi studi di tajwīd (le regole stilistiche alla base della recitazione coranica) e progredire nella sua formazione religiosa, il padre lo avvicina a un’associazione sunnita legata ad al-Azhar – la moschea-università nel cuore del Cairo – che lo proclamerà shaykh alla giovanissima età di 15 anni.

 

Nella capitale Sheikh Imam farà tantissimi incontri: passeggiando al lato della moschea Fādil Pasha nel quartiere di Nostra Signora Zaynab verrà stregato dalla voce di Muhammad Rifat, il primo – e anche per tale motivo, controverso – recitatore coranico a passare in radio (dal 1934), il quale, leggenda vuole, gli preannuncia un grande successo come predicatore.

 

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Si dice che proprio per aver voluto ascoltare di nascosto la voce di Muhammad Rifat alla radio, il già shaykh Imam sarà espulso dall’associazione e, per volontà del padre, non potrà più rimettere piede nel suo villaggio natale. Sono infatti  gli anni in cui la radio egiziana, in realtà sempre popolare già dagli anni ’30, è ancora percepita da alcuni ambienti come “un’innovazione” – bida‘ – e dunque considerata harām – “proibita”, “illecita” – anche nel suo trasmettere “suoni” religiosi.

 

Per sopravvivere al Cairo, il giovane Sheikh Imam conduce uno stile di vita “derviscio” (in questo caso, davvero nella sua accezione etimologica persiana di darvish, ossia “povero”) e, per mantenersi, presta la sua voce ad alcune celebrazioni religiose e non (come matrimoni, compleanni e ricorrenze locali), sviluppando gradualmente una doppia identità musicale non rara in quel periodo: chi desiderava vivere di musica lo faceva spesso destreggiandosi tra eventi religiosi (recitazioni coraniche, appelli alla preghiera, circoncisioni, performance mawlidī, etc.) e concerti estemporanei di canzoni popolari – originali o reinterpretate – più o meno “profane”.

 

Sheikh Imam trova successivamente un semplice alloggio nel quartiere popolare di Hawsh Qadam, un’area povera e sovrappopolata proprio dietro ad al-Azhar, piena di storia mamelucca, a due passi da dove sorge ora la Casa dell’oud fondata dall’iracheno Naseer Shamma. Si narra che proprio presso un barbiere di questo quartiere Sheikh Imam faccia la conoscenza di colui che è oggi ricordato come il maestro di molti recitatori coranici e musicisti di quel periodo, il compositore di musica tradizionale Darwish al-Harīrī (1881-1957). Darwish era anch’egli semicieco dall’età di un anno (e definitivamente non vedente all’età di 40 anni) ma, secondo i suoi studenti, dotato del dono della basīra (“intuizione”, in questo caso musicale, dalla stessa radice di basar, “vista”). Insegnante di muwashshahāt, taqātīq e adwār – si dice che fosse un vero e proprio archivio vivente di questi generi musicali –, fu effettivamente maestro di molti celebri cantanti egiziani presso l’Istituto reale di musica araba (inaugurato ufficialmente nel 1922-1923 da Fouad I e, dal 1952, chiamato semplicemente Istituto di musica araba). Il suo “studente fedele” rimarrà però proprio Sheikh Imam, il quale ricorderà sempre con grande stima e affetto la forte influenza del suo primo vero maestro di canto.

 

Risale inoltre a quel periodo la preziosa collaborazione del cantante di oggi con due altri musicisti egiziani, Mahmūd Subh (1898-1941) e soprattutto Zakariyya Ahmad (1896-1961), uno dei più importanti compositori di musica religiosa e patriottica, nonché di una cinquantina di canzoni di Umm Kulthum.

 

Il rapporto, però, avrà vita breve: il nostro cantante aveva ricevuto il compito – grazie alle sue doti mnemoniche – di memorizzare e ritoccare le canzoni destinate alla diva prima che le fossero presentate nella loro versione definitiva e venissero registrate e poi trasmesse in radio. Un giorno però, seduto in un caffè, Sheikh Imam si lasciò trascinare dalla musica e dal pubblico, e rivelò ben due pezzi originali ancora inediti. Pare che Umm Kulthum si sia arrabbiata a tal punto da non volerne più sapere di lui.

 

Questo però segnò l’inizio di una nuova fase artistica: Sheikh Imam impara allora l’oud (leggenda vuole: in sole quattro lezioni di Kāmal al-Hamsānī), inizia a comporre canzoni proprie, e amplia il suo repertorio musicale: ai suoi brani più “religiosi” (dal 1945 è ingaggiato alla radio nazionale con il gruppo di musica sacra di ‘Abd al-Samī‘ Bayūmī, 1905-1981) affianca pezzi di compositori della primissima metà del XX secolo, tra cui Muhammad ‘Uthmān, ‘Abdu Hāmūlī e Sayyid Darwish. È sempre in questo periodo che abbandona gradualmente i suoi abiti da shaykh  e inizia a indossare quello che diverrà uno dei suoi segni distintivi: il tarboush¸ il celebre copricapo rosso a forma tronco di cono.

 

Siamo arrivati dunque al 1962 e i tempi sono maturi per un nuovo sodalizio, forse tra i più conosciuti tra un cantante e un letterato arabi: quello con il poeta vernacolare (egiziano) Ahmed Fouad Negm (Ahmad Fu’ād Najm). Le loro prime canzoni leggere e d’amore, in collaborazione con il percussionista Muhammad ‘Alī, diventano dei discreti successi canticchiati nei vicoli cairoti e passano anche alla radio e alla televisione.

 

La svolta, però, avviene dopo la naksa (“ricaduta”) o Guerra dei Sei Giorni del 1967, un episodio che influirà pesantemente sul mondo arabo e sull’Egitto, tanto che, a livello musicale, ispirerà un vasto repertorio di canti impegnati.

 

In questo fervente contesto politico il duo inizia a comporre canzoni di protesta, esplicitamente rivoluzionarie, ironiche e provocatorie, incanalando nella musica quel senso di sconfitta, delusione, disperazione, rabbia e tradimento proprio della naksa. Parole amare (kalām murr), dure e pungenti, severe e critiche, a volte anche diffamanti, contro il potere politico.

 

Soprattutto a seguito delle loro sempre più frequenti e amate esibizioni dal vivo (quella per il sindacato dei giornalisti del 5 novembre 1968, in particolare, accrebbe enormemente la loro fama) il potere politico non potrà più ignorare i due artisti: come illustra bene questo ottimo articolo, lo Stato egiziano tenterà in diversi modi di cooptare il duo attraverso laute offerte di popolarità e guadagno.

 

I due però non si faranno corrompere, e lo Stato programmerà contro di loro una campagna di discredito (la conversazione pilotata tra i due celebri cantanti egiziani ‘Abd al-Halīm Hāfiz e Muhammad ‘Abd al-Wahhab ne è un esempio), fatta di accuse inventate e implacabile censura (i loro brani furono banditi dalla radio per circa 30 anni).

 

In quel periodo iniziano anche i soggiorni in carcere (Sheikh Imam è spesso indicato come il primo shaykh-musicista egiziano a finire in prigione). Nasser condannerà il duo all’ergastolo a causa – in particolare – di uno dei loro pezzi più famosi, che critica proprio l’operato dell’allora presidente egiziano. Resteranno in prigione “solo” dal maggio 1969 all’ottobre 1971.

 

Non sarà però Nasser (nel frattempo morto) a graziarli, ma il suo successore, Anwar al-Sadat. Il quale però li ri-arresterà ripetutamente (l’ultima volta nel 1981) a causa delle loro canzoni di protesta contro i suoi provvedimenti “liberali” all’interno e le sue politiche “di apertura” internazionali: tra i brani più incriminati troviamo Raja‘ū al-talāmidha (“Gli studenti sono tornati”) a favore delle proteste studentesche del gennaio 1972; e Humā mīn wa ihnā mīn (“Loro chi sono e noi chi siamo?”), ispirata alla cosiddetta intifada del pane del 17 e 18 gennaio 1977, definita da Sadat l’«intifada dei ladri».

 

I periodi in carcere risulteranno fruttuosi per i due: durante i pochi minuti di libertà al giorno in cui possono parlarsi, scrivono una ventina di canzoni. Tra i loro componimenti più famosi, la canzone in morte di Che Guevara (9 ottobre 1967); quella satirica sul presidente statunitense “Papà” Richard Nixon, le sue politiche mediorientali e la sua visita al Cairo, con calorosa accoglienza da parte del potere politico egiziano il 13 giugno 1974; quella su un certo ottimismo arabo nei confronti dell’elezione a Presidente della Repubblica francese di Valéry Giscard d'Estaing e della sua conseguente visita al Cairo il 16 dicembre 1976; e molte altre.

 

Ma Sheikh Imam non si è limitato alla collaborazione con Negm: ha interpretato tante altre canzoni “nazionalpopolari” e patriottiche; brani sul Nobel della pace, su Beirut o Saigon, sulle prigioni egiziane, sulla questione palestinese, sui contadini divenuti soldati, e sull’esercito egiziano (in forma di lettere di un padre – con accento sa‘īdī – al figlio al fronte; oppure quella in cui tira in ballo la figura di Giuda e del Cristo). Senza dimenticarsi la celebre Sālma ya Salāma, capolavoro di Darwish, ripreso anche da Dalida, ma trasformato da Sheikh Imam in una parodia sarcastica con cui dà il benvenuto in Egitto alla Coca-Cola, simbolo dell’espansione neoliberale.

 

Tutta questa sua arte potrà uscire dall’Egitto solo dopo il 1984, una volta terminato il divieto di viaggiare (impedimento che ispirò un’ulteriore canzone): Sheikh Imam (con Negm) si esibirà, tra l’altro, in Tunisia, Francia, Belgio, Gran Bretagna, Libano.

 

Il sodalizio tra i due terminerà proprio dopo le loro esibizioni internazionali: se Negm continuerà a dedicarsi a molti progetti di scrittura, poesia, teatro e televisione fino alla sua morte nel 2013, Sheikh Imam deciderà invece di ritirarsi dalla vita pubblica e cantare solo per occasioni speciali. Nei suoi ultimi giorni di vita verrà curato da un sarto di nome Kamel, che altri non era che il figlio del famoso shaykh ‘Abd al-Samī‘ Bayūmī, di cui sopra. Proprio Kamel lo troverà senza vita il 7 giugno 1995, all’età di 76 anni, nel suo modesto appartamento a Hawsh Qadam.

 

Con una biografia e produzione artistica del genere, è facile comprendere per quale motivo su Sheikh Imam si sia scritto di tutto: per alcuni è il cantante “dell’opposizione” per eccellenza; l’icona di una rivoluzione continua; la voce della contro-cultura (al-thaqāfa al-mudādda) egiziana; il cieco che ha ridato, con gli occhi delle parole, la vista  a milioni di persone; la star che cantava canzoni popolari che esprimevano la coscienza egiziana; l’Imam del riso e della resistenza; la voce dei poveri; l’ugola della sinistra. Alla sua morte è stato salutato come «il più importante cantante di protesta egiziano di questo secolo» e la sua relazione con Negm è stata descritta come uno «spartiacque nella storia della canzone politica satirica araba».

 

Alcuni di questi titoli nascondono delle palesi esagerazioni, frutto di letture a posteriori: come illustra brillantemente questo breve articolo, Sheikh Imam non è mai stato la voce di un intero popolo (complice forse la pesante censura egiziana). Piuttosto, finché in vita, è stato soprattutto la voce di una ben specifica parte della società, quella degli intellettuali e degli studenti di sinistra.

 

Inoltre, il nostro shaykh era figura artistica ambivalente e non senza contraddizioni: i suoi testi erano sì affascinanti, immediati, espliciti e “popolari” (perché semplici e in arabo colloquiale) ma sarebbe scorretto parlare, come spesso si è fatto, di un livello impareggiabile di popolarità tra la gente comune o di un suo carattere particolarmente innovativo a livello musicale (si inserisce piuttosto in una chiara eredità secolare della canzone rivoluzionaria egiziana, fatta anche di molti shaykh-cantanti provenienti direttamente da al-Azhar).

 

Più aderente ai fatti è che la sua voce roca si è veramente occupata dei problemi della sua gente, che ha messo in luce i mali sociali con toni audaci, che non si è mai allineata al vasto sistema di mecenatismo ufficiale e che la sua eredità sembra vivere ancora, certamente ancor più di prima, con un nuovo slancio e nuova popolarità dopo  gli avvenimenti del 2011, e non solo in Egitto (dunque, non solo con le nostre vecchie conoscenze Eskenderella) ma anche in Tunisia (dove è venerato – da alcuni fan e band tributo – quasi come uno shaykh sufi che infonde la sua baraka).

 

Insomma, Sheikh Imam è una memoria nazionale che resuscita nei momenti di risveglio popolare e che oggi più di prima, si sta facendo spazio sull’altra sponda del Mediterraneo.

 

La canzone di oggi, scritta durante la sua (e di Negm) detenzione più lunga, è la celebre Shayyid qusurak al-mazara‘ (“Erigi il tuo palazzo sui nostri campi”), quintessenza dell’opera più provocante di Sheikh Imam. L’ abbiamo scelto poiché risuona in numerose “proteste arabe” da diversi decenni (e in questo caso non si tratta di un’esagerazione: dalla versione elettronica di alcuni siriani in Germania, passando per l’Egitto, la Palestina, la Tunisia e, recentemente, la Piazza dei Martiri di Beirut).

 

In italiano, a meno di importanti sviste, questo è probabilmente il primo articolo con le “informazioni di base” su questo artista. Eppure, il materiale in arabo non manca: la pagina Facebook ‘Ushshāq shaykh imām (lett. “gli innamorati di Sheikh Imam”) è un archivio preziosissimo di documentari, libri, interviste, foto storiche (con Fayrouz, con Marcel Khalife, e moltissimi altri artisti di grande rilievo) e continui tributi. Tutto materiale che meriterebbe maggiore visibilità, così come i suoi testi.

 

Vi lasciamo proprio con le sue parole, pronunciate nel 1984 a Parigi:

 

«viviamo in un deserto di repressione, eppure i fiori e le primavere sbocciano sulla terra del nostro mondo arabo. Facciamo parte del cuore pulsante dell’Egitto e diciamo ai nostri amici europei che, nonostante la repressione, continuiamo a creare e cantare [...]».

 

Buon tarab!

 

 

Canzone: Shayyid qusurak

Artista: Sheikh Imam

Anno: ’70

Nazionalità: Egitto

 

 

Scorri verso il basso per leggere il testo tradotto in italiano e l'originale arabo.

Qui tutte le precedenti puntate.

 

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Erigi i tuoi palazzi!

 

Erigi i tuoi palazzi sui [nostri] campi,

sulla nostra fatica[1] e sul lavoro delle nostre mani!

[Costruisci] bische[2] a fianco delle fabbriche

E prigioni al posto di giardini

Libera i tuoi cani sulle strade!

Chiudici dentro le tue celle!

 

Rovinaci pure il sonno!

Abbiam già dormito quanto volevamo!

Facci ancora più male!

Abbiamo già sofferto più di quello che potevamo sopportare!

Ora sappiamo chi è la causa del nostro dolore

Ora conosciamo la nostra forza[3] e ci siamo uniti:

Operai, contadini, studenti, la nostra ora è suonata![4]

Prendiamo una strada senza ritorno!

La vittoria è ora più vicina ai nostri occhi!

La vittoria è ora più vicina alle nostre mani!

 

شيد قصورك

 

شيّد قصورك عالمزارع، من كدّنا وعمل إدينا
شيّد قصورك عالمزارع، من كدّنا وعمل إدينا
 

والخمارات جنب المصانع، والسجن مطرح الجنينة
والخمارات جنب المصانع، والسجن مطرح الجنينة

 

واطلق كلابك في الشوارع، واقفل زنازينك علينا
واطلق كلابك في الشوارع، واقفل زنازينك علينا
 

ويقلّ نومنا في المضاجع، آدي احنا نمنا ما اشتهينا
ويقلّ نومنا في المضاجع، آدي احنا نمنا ما اشتهينا

 

واتقل علينا بالمواجع، احنا اتوجعنا واكتفينا
واتقل، علينا بالمواجع، احنا اتوجعنا واكتفينا
 

وعرفنا مين سبب جراحنا، وعرفنا روحنا والتقينا
وعرفنا مين سبب جراحنا، وعرفنا روحنا والتقينا

 

عمّال وفلاحين وطلبة، دقّت ساعتنا وابتداينا
عمّال وفلاحين وطلبة، دقّت ساعتنا وابتداينا
 

نسلك طريق ما لهش راجع، والنصر قرّب من عنينا
نسلك طريق ما لهش راجع، والنصر قرّب من عنينا
نسلك طريق ما لهش راجع، والنصر قرّب من عنينا

والنصر قرّب من إيدينا

 


[1] Il vebo kadda indica esattamente “lavorare duramente”, “faticare”, “sgobbare” e kudūd evoca l’idea di “diligenza” e “assiduità”.

[2] Abbiamo deciso di tradurre khammarāt, lett. “taverne”, “bettole”, “mescita” (da khamr, “vino”) con “bische”, per evocare il senso più dispregiativo di luogo di perdizione, di loschi affari, di corruzione.

[3] Lett. “conosciamo il nostro “spirito” o “anima” (rūh) e, più in generale “conosciamo noi stessi”, in questo contesto si intende una presa di coscienza della propria identità di popolo e conseguente forza.

[4] Il testo arabo aggiunge: “abbiamo iniziato”, sottinteso “il viaggio”, “la protesta”, “la strada” del verso successivo

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