Proponiamo di seguito in anteprima l’editoriale del nuovo numero di Oasis (23) intitolato Il Corano e i suoi custodi
Ultimo aggiornamento: 19/06/2024 12:31:15
«La colpa è di Voltaire, la colpa è di Rousseau», cantava Gavroche, il monello de I miserabili di Victor Hugo. Nell’era della fine delle “grandi narrazioni”, in cui «il jihad è l’unica causa disponibile sul mercato»[1], capita più facilmente di udire che la colpa è del Corano. La violenza settaria, il terrorismo internazionale, le persecuzioni delle minoranze: per alcuni tutto sarebbe riconducibile alla lettera del testo sacro dell’Islam. E lo Stato Islamico[2], con la sua propaganda infarcita di riferimenti alla “parola di Dio” o ai detti del Profeta, non farebbe che confermare questa tesi.
Discorsi controversi, e non privi di intenzioni polemiche. Abbiamo comunque deciso di farci i conti, dedicando questo numero di Oasis proprio al Corano. Tuttavia, più che affrontare frontalmente il tema del rapporto tra religione e violenza, già trattato in un precedente fascicolo[3], o soffermarci su un’osservazione “statica” dei contenuti del Testo, abbiamo preferito interrogarci sulla “dinamica” del rapporto tra i musulmani e le loro Scritture e dunque sui modi in cui essi le leggono e le hanno lette nel corso dei secoli. Il nostro obiettivo non è decretare assoluzioni o condanne. Siamo peraltro consapevoli che la questione della violenza fondamentalista non può essere ridotta alla dimensione dei contenuti testuali, ma si intreccia con fattori sociali, politici ed economici.
Se ci siamo inoltrati in questa riflessione è anche perché certe domande affiorano innanzitutto all’interno delle società musulmane. In un documento del gennaio 2015, ad esempio, un gruppo di importanti intellettuali “laici provenienti dal mondo musulmano” scriveva che «Il mondo vive una guerra scatenata da individui e gruppi che si richiamano all’islam. […]. Oggi la risposta a questa guerra non consiste nel dire che quello non è islam, perché è proprio in nome di una certa lettura dell’islam che sono commessi quegli atti. No, la risposta consiste nel riconoscere e affermare la storicità e l’inapplicabilità di un certo numero di testi che fanno parte della tradizione musulmana. E nel trarne le conclusioni»[4].
È lo stessa prospettiva da cui parte nell’articolo di apertura Abdullah Saeed, secondo il quale un approccio contestuale al Corano offre un’interpretazione più appropriata dei versetti che pongono oggi particolari problemi di applicazione. Sarebbe però riduttivo limitare il nodo interpretativo all’opposizione tra passato e presente. Come documenta Mohammed Benkheira, sin dall’avvento dell’Islam «l’obiettivo di un commento coranico non è tanto spiegare il Corano, quanto consentire a una generazione di una determinata regione di appropriarsi della sua interpretazione». E le interpretazioni non variano soltanto secondo lo spazio e il tempo, ma anche in ragione della pluralità interna all’Islam. Così, lo sciismo, della cui vocazione ermeneutica parla Mathieu Terrier, si distingue per il ruolo che in esso assume l’imam, il solo a poter far “parlare” un Testo che altrimenti resterebbe muto. In ambito sunnita è invece soprattutto il sufismo a dar vita a una lunga tradizione di interpretazione spirituale, tema approfondito da Denis Gril.
Ci sono poi le letture fondamentaliste. Come scrive Michel Cuypers, esse sono alimentate da un’interpretazione letteralista del testo, che a sua volta fa leva sulla questione dell’abrogazione, secondo la quale i versetti più concilianti sarebbero abrogati da altri, successivi, più intransigenti. Tuttavia, un’analisi più accurata dei passi coranici su cui tale teoria si fonda ne rivela la sostanziale infondatezza. Di interpretazioni fondamentaliste, segnatamente salafite-jihadiste, si occupa anche Joas Wagemakers, che propone un confronto tra due diverse spiegazioni di due versetti coranici utilizzati dallo Stato Islamico per giustificare la decapitazione del giornalista americano James Foley. Emerge così «che i salafiti e le loro letture delle fonti non sono così inequivocabili come potrebbe sembrare». Quanto vari siano gli usi, e gli abusi, del Corano, è dimostrato anche dall’articolo di Chiara Pellegrino sull’esegesi scientifica, una disciplina recente, dai risultati discutibili, che mira a mettere in evidenza la corrispondenza tra contenuto della Scrittura e scoperte della scienza. La definizione dei contenuti dell’Islam non si gioca però soltanto al livello del testo coranico, ma chiama in causa la conservazione della memoria di quanto detto e fatto dal Profeta, come ricorda Roberto Tottoli.
Non potevamo tralasciare la questione politica. Da decenni gli islamisti affermano che dal Corano deriverebbe l’obbligo di istituire un preciso sistema di governo, identificato con lo “Stato islamico” o con il “califfato”. Ridwan al-Sayyid constata invece che «la maggior parte dei musulmani di ogni epoca non è mai stata sottomessa all’autorità di un califfo» e che «il discorso sullo “Stato islamico” è un’ideologia recente». Tuttavia, la questione è forse più complessa e riguarda il paradosso su cui, già nei testi fondativi, è impostato il rapporto tra politica e religione nell’Islam, che, come spiega Leila Babès, allo stesso tempo vuole l’instaurazione di un ordine divino e svaluta il potere degli uomini che si auto-investono della missione di realizzarlo.
Fedeltà al passato o coraggio dell’innovazione, esegesi letterale o attenzione al contesto, interpretazioni politiche o letture spirituali: le tensioni che oggi attraversano il campo dell’ermeneutica coranica non sono in fondo così nuove, né si risolvono nella dialettica tradizione-modernità. Per accertarsene basta andare alla sezione dei classici. Il dotto Jalāl al-Dīn Suyūtī, che, come scrive Martino Diez, «illustra in modo paradigmatico l’approccio tradizionale al Corano», si vuole un rinnovatore ed è stato forse più ardito di tanti interpreti attuali. In tempi più recenti, esegeti moderni come Muhammad ‘Abduh, Rashīd Ridā e soprattutto Sayyid Qutb, per liberarsi dei lacci della tradizione hanno aperto la strada alle letture politiche e finanche violente, mentre lo studioso egiziano Abū Zayd è passato per rivoluzionario, ed è stato condannato per apostasia, pur rifacendosi alla lezione di autori medievali.
Le scritture islamiche si trovano insomma al centro di un vero e proprio conflitto delle interpretazioni che, certamente in maniera non esclusiva, contribuisce alle convulsioni dell’Islam contemporaneo. Che questo conflitto debba risolversi in senso fondamentalista non è un destino già scritto. Il caso dell’Indonesia, il più popoloso Paese musulmano del mondo raccontato nel reportage di Rolla Scolari, dice non soltanto che la partita è aperta, ma che i movimenti estremisti possono essere contrastati. Leggendo tra l’altro lo stesso Corano a cui quei movimenti pretendono di ispirarsi.
Le opinioni espresse in questo articolo sono responsabilità degli autori e non riflettono necessariamente la posizione della Fondazione Internazionale Oasis
Note
[1] La frase è di Olivier Roy. Si veda per esempio Catherine Calvet e Anastasia Vécrin, Olivier Roy: «Le jihad est aujourd’hui la seule cause sur le marché», «Libération», 3 ottobre 2014, bit.ly/1WrI2pF
[2] In questo numero scriviamo Stato Islamico per indicare l’organizzazione jihadista e Stato islamico per indicare in generale il progetto politico che punta a istituire uno Stato su base religiosa.
[3] Sacra violenza? Religioni tra guerra e riconciliazione, «Oasis» 20 (2014).
[4] Déclaration de laïcs issus du monde islamique, 15 gennaio 2015, bit.ly/1T7bePM